Un pensiero capace di andare oltre il dualismo bello/brutto e distruggere alla base, con tanto di spiegazione, ogni stereotipo. Laura Ghianda è qui per questo, per promuovere una nuova forma di spiritualità radicata che possa essere l’altezza da cui volare per una nuova umanità. D’altronde le abbiamo provate tante per diventare una società migliore e nonostante i passetti fatti (io li intravedo), molto ancora c’è da fare. Allora ci sono falle in alcuni sistemi di pensiero e di vita quotidiana che vanno in qualche modo colmati per sentirci presenti e consapevoli in tutte le nostre sfaccettature, anche e soprattutto quelle censurate perché considerate brutte e cattive. Ho scelto Laura Ghianda per questa intervista perché le censure non mi sono mai piaciute, soprattutto quando sono quelle intelligenti, quando arrivano dal profondo, quando sono pronte a raccontarci qualcosa di nuovo ed inaspettato su noi stessi, a sollevare quesiti interiori, ad accompagnarci verso nuove e potenti riflessioni per assumersi la propria totalità aspirando, così ( e finalmente!), ad una umanità davvero migliore. E in questo momento storico è più che mai necessario.
Spiritualità radicata, cos’è?
Grazie di avermi invitata! Per me è un onore poter parlare dei temi che più mi appassionano. La spiritualità radicata è una risposta al bisogno umano di spiritualità totalmente differente da quanto conosciamo fino ad adesso.
L’attuale comune idea di spiritualità si è fondata sulle categorie di pensiero che sono arrivate sino a noi dalla Grecia antica, che a sua volta ha subìto le influenze dello zoroastrismo: questo scindere ogni cosa in due poli, dove uno dei due è considerato “bene” (o “meglio”), mentre l’altro è considerato “male” (o “peggio”), non è affatto un modo di pensare neutro e universale: è di derivazione culturale ed è assolutamente possibile seguirne una pista storica.
Su questo pensiero che scinde, che chiamo dualismo oppositivo o pensiero dicotomico, si basa anche la separazione tra spirito e materia, sacro e profano, spirito e corpo, intelletto e esperienza, luce e buio, ma anche tutte le altre coppie di opposti che conosciamo.
La parola “spiritualità” deriva proprio da questa separazione: spirito, considerato per definizione antitesi della materia (MATER-ia).
L’aggiunta dell’aggettivo “radicata” ci richiama l’immagine dell’albero: la tendenza a volersi “sollevare”, “innalzare”, senza curare le proprie radici ci ha resi solo più fragili. Ecco che può esistere una forma di spiritualità che non ha bisogno di operare queste divisioni, dove si impara che certamente lo spirito è sacro, ma è sacra anche la materia. Certamente “l’alto” è sacro, ma è sacro anche il “basso”. E quindi è sacro il nostro corpo, il nostro bagaglio di umanità che è il frutto di milioni di anni di sforzi da parte dell’intelligenza evolutiva.
Le ripercussioni sono enormi: piuttosto che considerarci “impuri” con tutta la nostra esistenza, per rimandare la felicità a un supposto altro mondo dopo la morte (cosa che ci sta impantanando in un terribile bypass spirituale-ne parliamo dopo!), cominciamo da subito a lavorare per conoscere bene i nostri umani strumenti, affinarli, e agire già su questo mondo. Senza bisogno di peccati, di “o tutto bianco o tutto nero”, di sensi di colpa o punizioni divine.
È questo e molto, molto, molto di più, ma non posso dilungarmi!
Fattivamente, come si può lavorare quotidianamente per andare oltre il dualismo?
È una grande sfida, che io stessa ho provato e ancora sperimento, perché il condizionamento a pensare secondo la logica dicotomica è fortissimo. Non è solo pensiero, si è proprio insinuato in ogni nostra cellula, guidando dunque il modo in cui diamo significato alle esperienze. Da qui, ci pare di sperimentare sul serio quel mondo “diviso due metà”.
Ciò che più funzionò con me è il farne esperienza. In primis, capire come funziona bene il dualismo oppositivo (non è sterile pubblicità eh, ma sul serio, l’argomento non è semplicissimo per cui ho fatto un video sul mio canale Youtube Laura Ghianda Teasofia, dotata di pennarello e lavagna, chi volesse, lo trova lì!)
Osservare come entra in campo facilmente questo automatismo (e viviamo in un periodo terribilmente polarizzante!), sperimentare ciò che non si può incasellare in quella logica (e tutte le nostre resistenze nel farlo!) è ciò che a un certo punto fa scattare un qualcosa di folgorante, dopo il quale nulla si vede più come prima. È rivoluzionario, ma sfidante perché si fa davvero fatica ad essere compresi. Il dualismo oppositivo è il “pensiero della guerra”, fatto per mantenersi in vita da sé. Tutto ciò che non ci è chiaro lo incaselliamo in automatico in una categoria o in quella contraria, anche se si tratta di qualcosa di differente. Stimola il cervello rettile, ci fa sentire in perenne scarsità e pericolo.
Tutte le mie proposte vanno in questa direzione: cercare di vedere oltre, sperimentare altro. A iniziare dal rivedere ogni cosa della quotidianità come sacra, a riconoscere le trappole nelle convinzioni che limitano, a toccare con mano tutti i momenti in cui viviamo la dimensione della liminalità, della soglia: ciò che non può essere né un estremo né il suo opposto, ma entrambe le cose insieme.
Come è nata in te la necessità di farti portatrice di questi messaggi?
In un certo senso, sono nata così. Ho sempre sentito una spinta a voler riconoscere la mia umanità come degna, solo se facevo la mia parte; curare la mia “ottomiliardesima fetta di mondo”, che non è “cambiare tutto il mondo” perché sarebbe sciocco e prepotente. Ma fare la mia parte, si.
Non siamo mai stati 8 miliardi di esseri viventi: non è più il tempo dei club esclusivi di illuminati, dobbiamo lavorare su questa ferita che deriva dalla paura di non essere speciali: ci sta trasformando in mostri, altro che evoluzione! Va recuperato un nuovo umanesimo, che si basi su presupposti totalmente differenti. Ecco: io sono oggi l’antenata di coloro che verranno dopo. Voglio sentirmi degna di questo onore. Questo è il mio motto, e il mio motore.
Qual è il “gioco” di cui tutti seguono le regole, il demone da cui è difficile svincolarsi e come rimettersi nel proprio gioco?
Il dualismo oppositivo, cioè il pensiero dicotomico, detto semplice il “pensiero delle separazioni”. Tutti pensano di essere la parte buona, coloro che sono diversi da noi sono quindi i “cattivi” (o le “pecore”, o gli “addormentati”, non fa differenza. È sempre una dinamica “noi VS loro”).
Per cui si crede che ci sia un “male” che voglia vincere sul bene, ovviamente “il male” è sempre considerato esterno a noi. Un gran guaio. Noi ci immaginiamo essere sempre nella parte giusta: il pensiero della guerra, appunto.
Le persone credono dunque che sia il “male”, il “nero”, l’”oscurità” a essere il “demone” (come mi piacerebbe che questa parola tornasse al suo significato originario!) e che sconfiggerlo significhi il trionfo del bene e blablabla tutto quello che ci diciamo tramite le nostre narrazioni. Il “demone”, in realtà, è il sistema stesso. Non importa chi vince, se i neri o i bianchi, o se i viola o gli arancioni. Il “demone” si nutre di questo scontro perenne.
Farnetico? Forse. Però esistono ancora oggi, in tutto il mondo, gruppi umani che non hanno mai iniziato a ragionare secondo la logica dicotomica. Ed è incredibile come riescano a vivere in pace. Villaggetti isolati? No. Ci sono ad esempio i Minangkabau che sono 6 milioni di persone, che compiono ogni tipo di professione. La loro storia, sul come siano riusciti a svignarsela dalle varie invasioni e vari tentativi di sovvertire il loro ordine pacifico, dovrebbe essere studiata obbligatoriamente in ogni scuola di ordine e grado. Invece sono convinta che 1 lettrice/lettore su 100 li avrà sentiti appena nominare.
Il gioco non termina con la vittoria di una o l’altra parte. Termina con un radicale cambio di logica. Se chiamo il Monopoli “Risiko” ma le regole sono le stesse del Monopoli…
Spirito e materia. Nella logica delle separazioni si tende a dividerle, come fare arrivare il messaggio che sono imprescindibili l’uno all’altra?
Perfetto. Riprendo il discorso fatto in apertura. La prima difficoltà è comprendere che metterle insieme non è nemmeno come incollare tra di loro due metà che però restano indipendenti. La logica multipolare, beyond dualism, ciò che consente di pensare oltre al dualismo oppositivo, è una logica circolare e in movimento. Ogni sua parte è in qualche modo al contempo un intero con la sua dignità e caratteristiche, e parte di qualcosa di più grande in cui interagisce. L’equilibrio si forma, appunto, non facendo vincere una a scapito di un’altra, non è una relazione vinco-perdi, cosa che avviene nel dualismo oppositivo. È un vinco-vinci. Serve cambiare alcune convinzioni di base che limitano questa comprensione. Dare valore all’esperienza dell’esistenza, in primis. Come sacra essa stessa. Mettere in discussione dunque il primato della trascendenza divina (la divinità esterna dal creato, lontana da noi). Per me la Teasofia, ovvero la spiritualità “della Dea”, è una guida di questo processo molto efficace (proprio perché “Dea” non è la metà femminile dell’universo, ma l’immagine simbolo di tutta la logica multipolare. Ma per questo… rimando al mio libro che uscirà tra qualche mese!).
Oggi si parla tanto di mondo materiale, che avrebbe smarrito lo spirito, per cui servirebbe “castrare” ancora di più la materia per far “vincere” lo spirito. Si vede come questo è un linguaggio bellico? Dove una parte deve uscirne sconfitta e l’altra vincente? Questo è il nucleo dello squilibrio, non un presunto “eccesso di materia”. Nel momento in cui lo spirito e la materia sono stati scissi, diventando “liberi” di farsi la guerra, l’equilibrio è diventato impossibile. La via è ricomporre la dicotomia in modo che lo spirito nutra la materia e la materia nutra lo spirito. Non serve affatto perpetuare questa separazione! Tutto ciò che esiste è fatto di tutto. Spirito e materia.
Femminile… ferito, arrabbiato, alla ribalta, verso il potere, sacro. In tutto questo parlare di ritorno al femminile ci stiamo perdendo qualche pezzo? Lo stiamo facendo nel modo giusto? C’è, secondo te, qualche aspetto da approfondire maggiormente?
Eccome! Ora, il discorso si fa complesso. Se impariamo bene come funziona il dualismo oppositivo, con relativi abbinamenti di categorie (tra cui le famose “energie”) ai generi, comprendiamo anche la falla di queste teorie. In primis, occorre capire che ciò che oggi comunemente si crede essere “maschile” e “femminile” è frutto di quello stesso dualismo, c’è moltissimo delle idee greche dentro, una descrizione rilanciata con forza nell’800: ed ecco che è arrivata fino a noi. Ma sia nell’epoca vittoriana, sia nella polis ateniese, abbiamo idea degli squilibri in cui si viveva, specie se nascevi donna? Come può un pensiero creato per mantenere in vita una determinata cultura, produrre un mondo differente? Non può, semplice.
Il problema, quindi, non è il potere femminile perché io sono super convinta (e ci lavoro anche!) che sia ben ora di recuperare un potere sano. Femminile senza dubbio, giacché abbiamo un condizionamento di millenni a non percepirlo, quel potere. Ma poi anche un potere sano, e sottolineo sano, negli uomini (io questo mondo non lo chiamo “dominio del maschile”, ma del “maschile distorto”). E anche in coloro che non si identificano né negli uomini né nelle donne.
Il problema è la definizione del femminile. La narrazione, ciò che crediamo essere questo femminile.
Una definizione nata nel dualismo oppositivo è fatta non per restituire potere, ma per mantenere disequilibrio e scontro. Praticamente, oggi si parla tanto di integrare ed equilibrare, ma non ci si accorge che il modo in cui si descrive questo processo… ha in sé gli ingredienti per fare fallire questa ricerca di equilibrio.
Vale quanto si diceva per spirito e materia. Ogni parte in gioco non è una metà da appiccicare con la colla. È un intero. Lo so, servirebbe il disegno… arriverà con il libro!
Continuando a chiamare “femminili” le solite qualità vittoriane di gentilezza, accoglienza perenne, passività, intuizione, luna, ecc. contrapposte al “maschile” solamente forza, direzionalità, attività, razionalità, sole, eccetera, non integreremo proprio nulla.
Non può essere questa la via e, infatti, è evidente nella concretezza della realtà che non funziona. Sta solo producendo persone che si chiudono in altre gabbie, giudicando a raffica, cercando di aggiustare l’altra/o senza vederla/o nel posto in cui si trova.
Cominciamo dunque con il ribadire: la rabbia delle donne, che fa una foXXuta paura, non è il “loro maschile”. È la rabbia, punto. Un sentimento umano in dotazione a ogni essere. Finché continueremo a chiamarla “maschile”, nella nostra mente si continuerà a produrre un’immagine di donna di un certo tipo. Tutte le volte che noi o le altre non combaceremo con quell’immagine (che bypassa la razionalità, ben inteso), inizierà la guerra interna (e quindi esterna) del giudizio, la censura, eccetera. Vedi? Il pensiero della guerra, il “demone” in azione. Torna tutto.
La direzione da prendere ora è accettazione della nostra completezza. Dura? Terribilmente, perché su queste categorie ci siamo fatte e fatti violenza, fondando la nostra identità: metterle in discussione significa accettare che la violenza è stata inutile. Ma è proprio così. Prima lo capiamo, prima cambieremo il mondo. Sul serio, stavolta. Posso solo dire che questi “maschile” e “femminile” non sono affatto leggi universali. Non tutti i gruppi umani li percepiscono così; così come anche nel mondo animale c’è una grande varietà: chiediamo a una mantide religiosa se nell’atto di divorare il maschio sta agendo “dal suo maschile”?.
Che scatti sempre diffidenza dinanzi alla parola “universale”! Nulla di ciò che è produzione umana è universale. Piuttosto, si riconosca la nostra fragile umanità che ha bisogno di certezze. Perché è riconoscendola, che cambiamo.
Ho apprezzato tanto un tuo post su Instagram (ecco il link), “Il dolore è come l’olio in una lampada”, come restare a guardare la fiamma che brucia?
La spiritualità di oggi è una perenne fuga da ciò che non vogliamo vedere di noi. Tra questo, il dolore. Crediamo che se soffriamo sia sempre una “nostra scelta” (=convinzione disfunzionale) e che quindi se proviamo dolore non siamo spirituali (=giudizio interiorizzato dipendente dalla suddetta convinzione). Come fare dunque? Cado in una performance (=coerente con la cultura occidentale) dove io stessa/o mi convinco che non provo dolore, perché sono spirituale. Ma in realtà? Lo bypasso: mi anestetizzo. Ma rifiutando quella parte di me, che non scompare, anzi, continuerà a stuzzicare per essere vista, mi darà sommo fastidio quando la vedo negli altri. Ecco le varie frasi “aggiusta tutto” tipo “vibri basso”, “è tutta una tua scelta”, eccetera, che più che comunicare spiritualità a me comunicano disconnessione, mancanza di empatia… Più ci convinciamo che la spiritualità sia quella roba da Superman, praticamente, perché devi avere i superpoteri per praticare queste idee, più sentiremo resistenza dinanzi le emozioni, anche quelle difficili (che non chiamo “negative”). Invece, dobbiamo starci. Terribile? Si cavolo. Lo so, esco da due anni infernali. Non vedevo l’ora finisse? Altroché. Ma ci puoi solo stare, attraversare, per trasformare perché ricordiamo: per trasformare qualcosa bisogna prima accettarlo.
A noi, che ci crediamo tanto evoluti, manca persino la banale conoscenza di come fare ad ascoltare mantenendo lo spazio, senza dover aggiustare o “togliere” l’emozione a chi abbiamo davanti. Ecco la spiritualità radicata: iniziamo dagli esseri umani che siamo, che abbiamo anche tanta bellezza in noi. Ecco: ci stiamo più facilmente, a guardare quella fiamma, se ci sosteniamo invece di “aggiustarci”.
Nel mondo spirituale new age da cosa è consigliato stare in guardia?
Dal bypass spirituale, assolutamente. Voglio essere chiara, io non credo alle “conversioni”, o al “la mia spiritualità è migliore della tua”, intendiamoci; io parlo su un piano umano. Tu per me puoi anche credere al Dio unicorno che fa comparire gli arcobaleni quando vomita, puoi anche credere che i girini siano la nuova manifestazione degli dei che, se tu sei felice, io sono felice. La spiritualità radicata nemmeno parla di questa o quella divinità, per intenderci. Se qualcuno sente importante averne una, può integrarla. Ma non è necessario. Però, se l’esistenza è sacra, se il mio corpo è sacro e pure le nostre emozioni, perché riconosciamo la “bravura” di questa intelligenza evolutiva… ecco, noi abbiamo dei meccanismi. Un hardware (il corpo) e un software (come funzioniamo). La nostra evoluzione, la crescita (o meglio, io la chiamo “espansione”) armoniosa ed equilibrata, non può venire da pratiche che censurano i nostri meccanismi. Ma da approcci e pratiche che li 1-imparano 2-comprendono 3-favoriscono.
Troppi troppi troppi approcci new age, a volte persino incoerenti tra loro, fanno l’opposto: ci vogliono modellare non su un essere umano ma su un supereroe. Per la prima volta nella storia abbiamo delle conoscenze verificate. Non credo affatto in una scienza infallibile, voglio essere chiara: non mi si polarizzi sulla questione. Ma, faccio un esempio, su assunti semplici quali il fatto che è l’empatia che permette di trasformare l’emozione, non il giudizio (e tentare di aggiustare è un giudizio), non c’è più da discutere. Funzioniamo così.
Radichiamola questa rivoluzione, a iniziare da una spiritualità capace di radicarsi.
Perché, si sappia bene: la spiritualità non è affatto qualcosa di davvero diviso dalla vita. Ciò a cui noi crediamo, finisce per farsi materia. Costruirà un certo tipo di cultura. Io non voglio una cultura dove se soffro, invece di abbracciarmi, mi si viene a dire che vibro basso o che l’ho scelto prima di incarnarmi. No, grazie.
Cos’è il bypass spirituale?
L’utilizzare pratiche e convinzioni “spirituali” per non affrontare i nostri irrisolti. Lo chiamo anche “spiritualizzazione delle ferite”. Parlarne è doloroso, perché usiamo il bypass per diminuire il dolore, se ci sembra troppo da affrontare. È droga, in chiave spirituale. Non senti il problema ma il problema rimane. E si vede, che rimane. Siamo un popolo di bypassanti. Onestamente, non so quanto il meccanismo sia davvero reversibile, poiché la new age (o buona parte di essa) ha finito per istituzionalizzare il bypass, catalizzando nel tempo (e grazie anche a un mercato spirituale un po’ facilone e aggressivo) tutte le persone che cercavano inconsciamente una fuga dai propri irrisolti. Ne parlo perché io ero una di loro. Ma prima o dopo dobbiamo capire che non ci rende migliori: ritarda solamente l’occasione di fiorire.
“Guarire e umanizzare la coscienza”, come?
Non ho la ricetta. Posso solo provarci. Sul serio, nessuno ha la ricetta e se qualcuno dice di averla o mente, o è un pazzo/a. Ma dobbiamo provarci assolutamente. Io sto provando, proponendo la spiritualità radicata e la Teasofia perché su di me hanno funzionato alla grande, ma sono anche conscia che siamo diverse e diversi. Quindi probabilmente servirebbero strumenti diversi. Una cosa però ho chiaro. Non si fa nulla, se prima non si condivide una forte cornice di senso. Finché la spiritualità rimane sradicata, remiamo in direzioni differenti.
Laura Ghianda a breve e lungo termine, quali sono i tuoi progetti?
- Il mio libro: probabilmente si chiamerà “introduzione alla Teasofia”, e l’ho quasi ultimato. Parla della Dea oltre il dualismo oppositivo, ma parla anche della cornice di senso beyond dualism in generale e non è un libro “per convertire” ma per sperimentare altri punti di vista. Tra l’altro, vorrei provarne un formato innovativo ma questo non lo rivelo ancora!
- Sono molto felice perché sto ricevendo inviti a parlare in pubblico di questi temi, sia in Italia sia all’estero e ho scoperto che adoro farlo. Spero ricevere altri inviti!
- Migliorare la mia comunicazione social, una sfida! Non ero una cui veniva facile mettere la faccia, ma ho dovuto rendermi conto che quelli sono strumenti. Posso imparare a usarli per veicolare il mio messaggio, che rimarrà comunque forte. YouTube, che ho iniziato da poco, comunque è quello che mi consente di approfondire di più. Su Instagram faccio anche ridere, ma poi spero la gente voglia scavare in profondità.
- Magari un giorno lavorare di questa mia passione. Per dedicarmici full time. Difficilmente da fuori le persone si rendono conto di quanto tempo serva per studiare, sperimentare, tenere i social per lasciare sempre contenuti gratuiti. Io non guardo la tv, praticamente, non ho tempo libero. Se potessi lasciare il mio lavoro babbano, un giorno… ecco che ho varie idee per tramutare tutto questo in corsi. Di spiritualità radicata ce n’è già uno!
Vuoi lasciare un messaggio alle lettrici e lettori?
Scusatemi se ho toccato argomenti scomodi, lo so. Ascoltate: fino ad oggi tutte le rivoluzioni sono fallite. Il liberatore diventava il nuovo usurpatore, sempre. Perché? Perché le idee continuano a essere organizzate sulla stessa logica. Sono state solo un modo per tenere in piedi il gioco, che ormai fa le sue strategie da sé. Non sono nuove idee che servono, anche, forse. Ma serve un nuovo sistema per organizzarle, altrimenti anche l’idea più innovativa sarà polarizzata. E si tramuterà in cibo per il solito vecchio demone ormai stra-grasso.
Siamo noi le antenate e gli antenati di domani. Quelle persone penseranno delle cose di noi.
Quale mondo vogliamo lasciare? Siamo figlie e figli di una cultura che lascia ferite enormi, difficili da curare. Ho una storia a mia volta tosta, lo so cosa vuol dire. So cosa vuol dire rifugiarsi in mondi già “liberi”, in alto, lontani da tutto. Ma non funziona, è illusione pura. Non funzionerà.
Spetta a ciascuna e ciascuno di noi prenderci cura di quelle ferite, in primis accettando di vederle. Le abbiamo tutte e tutti, non importa la facciata che si vede all’esterno. Se non cominciamo, questa responsabilità cadrà su coloro che vengono dopo di noi.
Possiamo radicare questa rivoluzione. La dobbiamo fare insieme. E non sarà semplice. La vuoi trovare, tu, questa forza?
Grazie. Ho molto amato rispondere alla tua intervista, grazie davvero.
Con profonda gratitudine,
Simona
grazie infinitamente!!