Spesso nella pratica yoga si può provare frustrazione quando non si raggiungono le posizione nel modo in cui avremmo voluto o come abbiamo visto fare al vicino di tappetino (non dovresti nemmeno guardarlo). Essendo lo yoga anche una pratica fisica oltre che concettuale, filosofica e spirituale, questo tipo di atteggiamento può anche starci.
Nella società in cui siamo cresciuti, tendente a metterci tutti in competizione e ad annichilire il nostro sentire, dove lo yoga è considerato anche uno sport, il senso della competizione e l’ansia da prestazione possono essere del tutto naturali.
Ma nello yoga questo atteggiamento tra ansia da prestazione e competizione deve assolutamente essere eliminato a favore di un piacevole e fermo raggiungimento della posizione per il solo gusto di ascoltarsi. Lo yoga non è uno sport, come tale non esistono gare atte a creare questa competizione né con gli altri né con se stessi.
Tra gli insegnamenti più importanti che ci arrivano dallo yoga c’è quello di distaccarsi dai frutti dell’azione e di svolgere l’azione per puro spirito di sacrificio e devozione.
Alleggerendo questo concetto e contestualizzandolo alla società attuale e occidentale, la mia lettura suona così: compi l’azione per il puro piacere di esperirla, conoscerti e migliorarti nel tempo con molta lentezza. Nessuno ti corre dietro, abbiamo detto che non ci sono gare, giusto?
Nell’articolo Svadhiyaya, lo studio del Sé parte dai capelli parlo di conoscersi.
Tra l’altro, e tutti gli yogin saranno d’accordo, nella pratica yoga un giorno non è mai uguale all’altro; da contorsionista a ciocco di legno il passo è breve, a volte basta anche solo qualche ora.
Ma senza disperdermi nelle divagazioni. Le asana vanno approcciate con fermezza e reverenza nel rispetto del tuo corpo. E’ il mezzo che abbiamo a disposizione per stabilire un rapporto autentico con noi stesse nella più completa elasticità, pazienza e premura.
Il tappetino yoga è lo spazio in cui puoi smettere, almeno per una volta, di giudicarti brava o incompetente a seconda dei casi. Non sono questi i termini della lingua yoga.
Lo yoga richiede una profonda capacità di osservazione e con essa anche quella di una ricezione ed interpretazione dei messaggi che il corpo ci invia senza porre giudizio.
Lasciamo andare questo atteggiamento da maestrina nei confronti della nostra prestazione, lasciamo la lettera scarlatta nel romanzo di Hawthorne, nessuno deve metterci un voto, non ci sono registri, non ci sono pagelle né gogne.
Esisti solo tu in tutta la tua libertà di fare, sperimentare.
Ma alt. Questo non vuol dire rimanere statici nella pratica e non tentare di raggiungere la “perfezione dell’azione” che non intendo risultato, ma l’impegno per evolvere nello yoga con il massimo rispetto verso se stessi e il proprio corpo.
C’è una linea sottile, ma anche molto elastica, che divide il non lavorare, l’evolvere continuamente e farsi male.
L’atteggiamento ideale è quello di spingersi sempre un po’ di più, un millimetro più avanti, un millimetro più in basso al ritmo del respiro lento, lungo e profondo. Ma senza oltrepassare la soglia del dolore. Se ti ascolti la riconosci.
Nella Bagavad Gita (testo da leggere e rileggere) si legge:
“Saper distinguere l’azione entro l’inazione, lascia perplesso anche l’uomo più intelligente. […] Bisogna prima distinguere bene la natura intrinseca dell’azione, dell’azione sbagliata e del non agire.
[…] Le persone avvedute chiamano saggio l’uomo il cui agire è libero da desideri e da progetti egoistici. In questo modo le reazioni delle sue azioni sono consumate dal fuoco della conoscenza.
Avendo rinunciato ai frutti dell’azione, egli è sempre soddisfatto e non dipende da nessuna cosa esterna. Sebbene impegnato in ogni attività, in realtà non fa alcunché”.
Sei ancora in ansia?
Ricorda: non esiste la perfezione, esiste l’evoluzione.
Namaste
Simona